Perché crediamo che un post possa cambiare la Storia? Un nuovo fenomeno detto “slacktivism”
Perché crediamo che un post possa cambiare la storia? Bisogno di controllo, slacktivism , validazione sociale e illusioni della bolla mediatica alimentano questa convinzione. Scopri le dinamiche psicologiche dietro l’attivismo digitale.
MONDO PSICOLOGICO
I social media sono diventati strumenti di attivismo e mobilitazione, con milioni di persone che condividono post e hashtag per sostenere cause sociali, politiche o umanitarie. Ma perché così tanti credono che un semplice post possa avere un impatto reale sugli eventi della storia? Questa convinzione si basa su dinamiche psicologiche e sociali che vale la pena esplorare.
Il Bisogno di Controllo
Gli esseri umani hanno un forte bisogno di controllo sulla propria vita e sull’ambiente circostante. Eventi su larga scala come guerre, crisi climatiche o ingiustizie sociali possono farci sentire impotenti, poiché sfuggono al nostro controllo diretto.
In questi contesti, condividere un post diventa un modo per riaffermare Il proprio controllo: anche se l’azione è piccola, dà l’illusione di fare qualcosa per contribuire alla causa. Questo meccanismo è simile a quello che avviene in altre situazioni di incertezza, dove le persone cercano di agire anche simbolicamente per ridurre l’ansia e il senso di impotenza.
“slacktivism”
Lo slacktivism è il fenomeno per cui le persone supportano una causa attraverso azioni online minimali, come firmare petizioni digitali, cambiare l’immagine del profilo o condividere un hashtag.
Questo comportamento è spesso criticato perché considerato superficiale e privo di un vero impatto, ma ha un forte appeal psicologico:
• È facile e immediato, richiede pochi secondi e nessuno sforzo concreto.
• Dà un senso di partecipazione senza richiedere un coinvolgimento attivo (manifestazioni, donazioni, volontariato).
• Permette di sentirsi dalla parte giusta senza dover affrontare direttamente il problema o mettersi in discussione.
Sebbene il slacktivism da solo raramente produca un cambiamento tangibile, può essere utile se usato come primo passo per sensibilizzare e mobilitare azioni più concrete
La Validazione sociale
Condividere contenuti su temi sociali non è solo un atto di impegno, ma anche un mezzo per ottenere riconoscimento e approvazione dagli altri.
I social media sono costruiti attorno a meccanismi di gratificazione immediata: like, commenti e condivisioni fungono da ricompense psicologiche, attivando il circuito della dopamina nel cervello e rafforzando il comportamento.
Inoltre, esprimere opinioni su temi sociali può migliorare la nostra immagine agli occhi degli altri, comunicando valori positivi come empatia, consapevolezza e impegno civico. In alcuni casi, però, questo può portare a un comportamento chiamato virtue signaling, in cui l’attivismo online diventa più una questione di immagine personale che di reale interesse per la causa.
L’Illusione della “Bolla”
I social media creano ambienti in cui interagiamo principalmente con persone che condividono idee simili alle nostre. Questo fenomeno, noto come filter bubble (bolla di filtraggio), porta a una percezione distorta della realtà:
• Il nostro post riceve molte interazioni, facendoci credere che stia raggiungendo un pubblico vasto e diversificato.
• L’assenza di opinioni contrastanti rafforza la convinzione che la nostra visione sia dominante o universalmente accettata.
• La ripetizione dello stesso messaggio da parte di più persone nella nostra rete crea l’illusione che il cambiamento sia imminente.
In realtà, il messaggio può rimanere confinato alla nostra cerchia e non raggiungere mai le persone che potrebbero davvero fare la differenza.
La Speranza dell’Effetto a Catena
Molti credono che la viralità di un post possa generare un effetto domino e arrivare fino a decision-maker e leader influenti. Questa speranza è rafforzata da esempi concreti, come il movimento #MeToo o #BlackLivesMatter, che hanno avuto un impatto sociale significativo.
Tuttavia, questi successi non sono stati il risultato di singoli post, ma di campagne organizzate, azioni collettive e una pressione sociale costante.
L’effetto a catena è possibile, ma raramente avviene spontaneamente: richiede strategia, continuità e il coinvolgimento di persone disposte ad agire oltre il semplice click.
L’Ottimismo Psicologico
Le persone tendono a sopravvalutare l’impatto delle proprie azioni, soprattutto quando sono motivate dalla speranza di un cambiamento positivo. Questo fenomeno, legato all’ottimismo irrealistico, porta a credere che il proprio contributo abbia un peso maggiore di quanto sia effettivamente probabile.
Anche se razionalmente possiamo riconoscere che un singolo post difficilmente cambierà il corso della storia, la convinzione che possa “fare la differenza” è sufficiente per motivare la condivisione.
La Semplificazione della Complessità
Gli eventi storici e sociali sono estremamente complessi, spesso influenzati da fattori economici, politici e culturali interconnessi. Tuttavia, il nostro cervello è naturalmente incline a cercare soluzioni semplici e immediate ai problemi complessi (riduzionismo cognitivo).
Condividere un post ci permette di:
• Affrontare il problema senza sforzo, evitando il peso della sua reale complessità.
• Sentirci parte della soluzione, anche se non abbiamo conoscenze approfondite sull’argomento.
• Trovare un capro espiatorio, semplificando la narrazione in termini di “buoni” e “cattivi”.
Questa semplificazione è psicologicamente rassicurante, ma può portare a una visione distorta della realtà e a soluzioni inefficaci.
Le conclusioni
Credere che un post possa cambiare il mondo è il risultato di una combinazione di bisogni psicologici, dinamiche sociali e ottimismo umano. I social media possono essere strumenti potenti per diffondere consapevolezza, ma il cambiamento reale richiede azioni concrete e durature.
Condividere un post può essere un primo passo, ma non dovrebbe sostituire l’impegno attivo: per ottenere un vero impatto, è necessario andare oltre la semplice condivisione e tradurre le parole in azioni.